Le patate, si sa, vanno conservate al buio, in un luogo fresco (tra i 7 e i 10°C) e asciutto, all’interno di retine, ceste o sacchetti di carta, ma non di plastica, per evitare la formazione di muffe.
Trascorso un po’ di tempo dall’acquisto, le patate incominciano a cambiare aspetto ed è proprio in questi casi che insorgono i dubbi sulla loro eventuale tossicità.
La solanina, questa sconosciuta
La tossicità di questi tuberi è correlata alla presenza della solanina, una sostanza che la pianta stessa produce per difendersi da funghi e batteri. Mediamente, un chilo di patate ne contiene da 50 a 100 mg che sono un valore decisamente sicuro per la salute. Tali valori aumentano del doppio quando inizia la germogliazione, sino ad arrivare a 1 grammo man mano che il tempo passa, diventando pericolose.
Occhio a non superare il limite!
Il valore soglia di solanina si aggira attorno ai 3 mg per kg di peso corporeo (es. 180 mg per chi pesa 60 kg). A questi livelli, questa sostanza incomincia a dare sintomi come nausea, dolori addominali e mal di testa. In pratica, una donna di 60 kg può tranquillamente mangiare 2 chili al giorno di patate “fresche”, ma non deve superare i 200-400 grammi se si tratta di patate germogliate e verdastre!
I trucchi per limitare il rischio
Per fortuna, la solanina è concentrata nella buccia, per cui pelando le patate in modo grossolano, una buona parte va via. Nel caso delle patate lesse, una minima quantità si perde anche nel liquido di cottura. La frittura, invece, grazie all’elevata temperatura, riesce a diminuirne notevolmente la concentrazione. Una curiosità: paradossalmente, le patate meno trattate chimicamente, contengono più solanina!